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KLIMT E LA ‘FINIS AUSTRIAE’

in quell’epoca si viveva di ricordi come oggigiorno
si vive della capacità di dimenticare alla svelta e senza esitazione.
Joseph Roth, La marcia di Radetzky

La Vienna di Klimt fu una città molto vivace: il fervore artistico e culturale veniva nutrito da una ricca committenza, alimentata principalmente dai ceti industriali e finanziari della capitale, ma oltre l’apparenza della grande metropoli borghese in espansione già covavano quelle inquietudini e quelle tensioni che di lì a poco sarebbero sfociate nel grande conflitto mondiale.

Come spesso accade, gli artisti e gli intellettuali seppero interpretare meglio di altri i segnali che annunciavano il futuro e proprio nei due decenni scarsi che separano l’avvento della Secessione Viennese dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando si potè a un percorso che dalle raffinate atmosfere dello Jugendstil conduce all’affiorare delle ansie, che già prefigurano lo spettro della catastrofe.

Era sempre più difficile ignorare come il sistema complesso e apparentemente ordinato dell’impero asburgico fosse destinato a segnare il passo. La ‘finis Austriae’, era solo questione di tempo, avrebbe sostituito nell’immaginario collettivo la grande narrazione della ‘Austria felix’, scompaginando il mosaico di etnie e nazionalità che componevano la monarchia mitteleuropea – tenute insieme dal rispetto per le tradizioni e (forse anche) dal carisma dell’imperatore.

Non furono pochi i cantori della fine: basti pensare a Hugo von Hoffmannsthal, Joseph Roth, Arthur Schnitzler in letteratura, o a Richard Strauss in musica. Neppure Klimt fu estraneo a questa sensibilità, che vediamo affiorare in alcune sue opere – come i cupi accenni alla morte presenti nella sua prima opera dedicata alla maternità Speranza I.

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